Page 36 - januapress

Basic HTML Version

“… bruciare la legna per fare il carbone è
un’occupazione piacevole: indubbiamente ha
qualcosa di inebriante. Chi vi lavora, è
risaputo, vede le cose in una luce particolare,
è incline alla poesia e alle fantasticherie, i
demoni della foresta vengono a tenergli
compagnia. E’ bello, il carbone, quando lo si
rovescia per terra, dal forno incandescente.
Liscio come seta, materia liberata dalle
scorie e dal peso, divenuta eterna, piccola
saggia mummia nera del legno…”
(Karen Blixen, “La mia Africa”)
Fu con un po’ di timore che Giacomo seguì il padre, in quella fresca alba
estiva.
Si erano preparati quando era ancora buio. Avevano riempito due fazzoletti
da viaggio di pane, formaggio e un po’ di polenta che era avanzata la sera
prima. L’acqua l’avrebbero trovata strada facendo.
Guardando dalla finestra, scorsero i primi raggi del sole che schiarivano il
cielo; piegarono due coperte, se ne caricarono sulle spalle una ciascuno,
raccolsero dal tavolo i fagotti legati e uscirono, in silenzio, cercando di non
fare troppo rumore con i pesanti scarponi.
La luce, a poco a poco, schiarì le montagne che si colorarono di rosa e
l’azzurro del cielo impallidiva sempre più al sorgere del sole.
Giacomo si voltò verso la valle, guardò il paese ancora addormentato e pensò
al suo caldo lettino, abbandonato così presto quella mattina.
Era la prima volta che saliva sui monti con la prospettiva di restarvi qualche
giorno.
Da generazioni, nella sua famiglia, si faceva il carbone.
Tutti i maschi, raggiunti i nove, dieci anni, venivano condotti dai loro padri,
sulle montagne e lì cominciavano ad apprendere l’arte del carbonaio.
Giacomo, però, si sentiva un po’ sperso mentre affrontava quelle impervie
salite per raggiungere i boschi più alti, quelli più ricchi di legna da sacrificare.
Non gli piaceva il carbone. Lui era felice solo quando lavorava la terra.