Quanti paralleli ci uniscono.
Per poco, non ci siamo sfiorati in un lungo corridoio, vicini di casa.
Quante cose avrei voluto raccontarti e quante chiederti.
Chissà? Forse, complice un po’ di curiosità, avresti piacevolmente condiviso.
Il vecchio molo, il mare gonfio di odori.
In lontananza, mi sembra di scorgere la tua sagoma in controluce.
Prendimi per mano, trascinami nel tuo mondo e starò meglio.
Io, cantante pentita che non ha amato abbastanza la sua voce, ma che ama
quello che scrive la sua matita.
E’ il 1986, sono venuta su con quelli che hanno come simbolo la “A”
cerchiata.
Pure io, sostenevo la lotta contro il sistema. Sono una di quelli che pensano
che le guerre siano tremende mattanze organizzate, una di quelli che
preferisce stare dalla parte dei poco virtuosi; anch’io ho condiviso idee simili
sui poteri e le economie.
Era solo che comunicavo in una lingua diversa dalla tua: certo poco aulica,
forse un po’ ignorante, sicuramente molto genuina.
Mi sono trovata ad abbaiare slogan feroci, sputare parole di rabbia infuocata.
Al tempo, non c’era spazio per la poesia; i sentimentalismi erano banditi.
Consideravo i cantautori italiani un mucchio di blandi contestatori,
mugugnanti e sdolcinati e, in questa marmaglia, buttavo dentro anche te,
cantautore genovese di cui conoscevo sì e no due brani.
A me bastava sapere questo.
La musica, all’epoca, consisteva in un ripetersi ossessivo di poche note
incazzate e la voce era un urlo incalzante di frustrazione.
La parola chiave: autogestione.
Si occupavano i posti e ci si organizzavano il”live” quasi a costo zero.
I supporti discografici erano in pratica a costo zero.
La qualità sonora risultava, alla fine, a costo zero.
Quanti sono venuti ai tuoi concerti insultandoti: “Uno come te”protestavano:
“Con i suoi ideali, accetta di esibirsi sopra prestigiosi palchi da snob, per di
più, facendo pagare caro il prezzo del biglietto d’entrata. Ah!Traditore e
venduto!”.